di Serena Dentico

Parlando di parità di genere sono due gli spunti che mi sento di condividere in questo momento.

Il primo. Per parità di genere, a mio avviso, deve intendersi la parità ai blocchi di partenza (cioè la parità, in una data situazione, degli strumenti forniti a ciascuno per raggiungere il proprio obiettivo) e la parità all’arrivo (cioè la possibilità per tutti di raggiungere gli stessi traguardi). Niente più niente meno che l’applicazione dell’art. 3 della Costituzione. La parità di genere non dovrebbe invece essere strumentalizzata per evitarsi una faticosa corsa a piedi.

Il secondo. Per affrontare la questione della parità di genere dovremmo forse partire dall’accettazione (e non dalla negazione, né dalla “lamentazione”) del fatto che esistono differenze di genere potenzialmente fonti di discriminazione fra i sessi. Tanto per fare un esempio, se una donna partorisce, difficilmente il giorno dopo il parto può tornare a lavorare (ammesso che lo voglia fare). Gli uomini non hanno invece evidentemente questo problema, e possono quindi – quanto meno in astratto – risparmiarsi questo rallentamento fisiologico. E quindi? Forse, invece di protestare perché “questo non è giusto”, potremmo cambiare prospettiva e pensare non già a come recuperare il “rallentamento”, ma a come dargli un valore per farne uno strumento da sfruttare ai blocchi di partenza per “mettersi in pari” (v. il punto 1). Insomma, le differenze di genere dovrebbero diventare la palestra del pensiero (e dell’azione!) divergente, non solo una manifestazione del pensiero “protestante”.